Per una nuova edizione dell'Index Stoicorum di Filodemo (P.Herc. 1018)
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Tra tutti i papiri ercolanesi che sono stati ricondotti al complesso corpus della Σύνταξις τῶν φιλοσόφων, il trattato di storiografia filosofica di Filodemo,[1] un posto di rilievo è senza dubbio occupato dal P.Herc. 1018 (d'ora in poi P.), che quasi certamente conteneva la sezione dell'opera relativa alla scuola stoica. Insieme ai due rotoli che tramandano la storia dell'Accademia,[2] esso è l'unico testo che consente infatti – sia per l'estensione del materiale conservato sia per una certa organicità interna – di cogliere quale fosse la struttura originaria di questa fondamentale opera della prima produzione filodemea e quali fossero le modalità con cui l'autore procedeva a sistemare, all'interno dei diversi bioi dei filosofi presi in esame, il ricchissimo materiale pinacografico e dossografico di cui disponeva.
Delle tre benemerite edizioni del papiro che si sono succedute nel corso degli anni, soltanto la prima, quella curata da Domenico Comparetti nel 1875,[3] ha ricevuto unanime consenso da parte della critica, soprattutto per avere di fatto inaugurato l'edizione moderna dei testi ercolanesi, basata sul controllo autoptico dell'originale. L'ultima in ordine cronologico – dopo quella del Traversa,[4] assai poco attendibile a causa di numerosi errori di traduzione e di interpretazione del testo –, pubblicata da Tiziano Dorandi nel 1994,[5] pur avendo il grande merito di offrire un testo certamente più sicuro e comprensibile rispetto a quello fornito dagli editori precedenti, presenta numerose imprecisioni e difficoltà testuali. Tutte e tre, in ogni caso, risultano assolutamente carenti dal punto di vista paleografico e tecnico–bibliologico: l'analisi materiale del rotolo e delle parti che lo compongono risulta infatti quasi del tutto assente. Nell'edizione delle prime 16 colonne di testo del papiro, che ha costituito l'oggetto della mia Dissertazione di Dottorato e che attualmente è in corso di pubblicazione,[6] ho dunque ritenuto opportuno dedicare maggiore attenzione agli aspetti più trascurati dagli editori precedenti, vale a dire quelli più propriamente materiali e bibliologici.
La riproduzione digitale di tutto il rotolo, realizzata nel 2000 dall'équipe americana dell'ISPART, consente oggi di effettuare notevoli progressi nell'analisi di questo testo. Laddove la superficie del papiro risulta piana e priva di irregolarità stratigrafiche, infatti, l'ingrandimento e l'elaborazione di parti anche minime di testo al computer – soprattutto quelle in cui l'inchiostro è oggi quasi o del tutto scomparso – mi hanno indotto spesso a rivedere l'originale per confermare o meno la presenza di alcune lettere che risultavano invisibili ad occhio nudo ed allo stesso microscopio.
Il P.Herc. 1018[7] ci è pervenuto non intero e, nel complesso, in un discreto stato di conservazione.[8] Esso fu aperto con la macchina del Piaggio da Luigi Corazza nel 1808; il midollo del papiro, escluso dallo svolgimento in quanto in pessime condizioni, fu aperto un secolo dopo, nel 1909, ma purtroppo senza apprezzabili risultati.[9] Il papiro, di un colore nero intenso, caratteristico della maggior parte dei rotoli filodemei, è stato vergato da un inchiostro che ha mantenuto nei secoli una tonalità molto scura: le lettere, essendo di un colore più nero rispetto alla superficie carbonizzata, risultano quindi talvolta facilmente distinguibili anche ad occhio nudo. Come la maggior parte dei papiri di Ercolano, anche questo rotolo ha però subìto un graduale processo di deterioramento nel corso del tempo, dovuto soprattutto all'umidità, responsabile, in alcuni casi, della totale scomparsa della scrittura, come dimostra il fatto che alcune lettere presenti nell'apografo oggi non sono più visibili sull'originale.
Il volumen fu aperto in 21 pezzi, che conservano (fatta eccezione per i primi due) soltanto le parti superiori delle colonne, costituite in genere da non più di 12–13 righe di scrittura; tra le porzioni di testo vi sono spesso, quindi, lacune superiori a due terzi di colonna. I primi due pezzi si differenziano dagli altri perché restituiscono, nella loro parte alta, la porzione superiore delle prime otto colonne di scrittura; la parte inferiore è invece disseminata di una serie confusa di piccole porzioni di testo, che sono evidentemente il risultato di una notevole irregolarità stratigrafica, certamente prodotta da una non lineare apertura della metà inferiore del rotolo originario. Gli editori precedenti hanno tutti ritenuto che queste parti di testo – che per il loro pessimo stato di conservazione non furono prese in considerazione dai disegnatori – facessero parte della porzione inferiore delle otto colonne di cui gli stessi pezzi restituiscono la parte superiore. Uno dei primi risultati della mia ricerca è stato proprio quello di poter escludere questa eventualità con una certa sicurezza: i frammenti contenuti nella parte inferiore di questi due pezzi, infatti, risultano tutti sovrapposti piuttosto confusamente gli uni agli altri,[10] e ciò induce naturalmente a ritenere che essi dovessero appartenere ad un non precisabile numero di colonne di testo successive.[11] La parte superiore e quella inferiore di queste prime otto colonne, inoltre, non combaciano affatto: laddove nella colonna superiore c'è un intercolumnio, ad esempio, in quella inferiore è invece visibile del testo. L'irrimediabile confusione stratigrafica che caratterizza questa parte del papiro, visibilmente contorta e corrugata, e la scarsa estensione dei frammenti che essa contiene impediscono purtroppo di tentare un riposizionamento di questi ultimi all'interno del testo.
Le prime dieci cornici, contenenti 79 colonne di testo, si presentano in discrete condizioni; le ultime due, contenenti la prima porzione di papiro svolta nel 1808 (cr 11) e la parte più interna del rotolo, aperta malamente nel 1909 (cr 12), si trovano invece in un pessimo stato di conservazione e ci restituiscono soltanto scarni brandelli di testo, per lo più singole lettere.[12]
In linea generale è possibile osservare che i danni maggiori si sono verificati nella prima parte del papiro, come spesso accade ai volumina ercolanesi. L'esame delle sezioni sembra comunque confermare che, nonostante in alcuni punti si siano verificate delle perdite, più o meno consistenti, di porzioni di papiro,[13] la sequenza delle colonne di testo è corretta.
Considerato che l'estensione della voluta più esterna del rotolo misura 13.9 cm ca., il suo diametro doveva aggirarsi verosimilmente intorno ai 4.4 cm ca.[14]
Conformemente a quanto testimoniato dalla maggior parte dei volumina ercolanesi,[15] anche in P. le kolleseis appaiono eseguite con una certa cura: tranne poche eccezioni,[16] infatti, esse presentano un andamento sostanzialmente verticale e sono prive di evidenti sbavature. La distanza tra le singole kolleseis si aggira – per quanto ho potuto verificare[17] – intorno ai 12.5 cm ca., e corrisponde mediamente allo spazio occupato nel papiro da due colonne di scrittura insieme con quello che intercorre tra di esse. Tali dimensioni rispecchiano sostanzialmente quelle rilevate nella maggior parte dei rotoli di Ercolano, che risultano costituiti da fogli aventi un'ampiezza compresa tra i 7–7.5 cm e i 20–20.5 cm ca. e, più comunemente, tra i 9–9.5 cm e i 10–10.5 cm ca.[18]
In base ai dati raccolti e agli elementi a mia disposizione, ho cercato di effettuare, sebbene con estrema cautela, una ipotetica ricostruzione del formato librario originario di P., di cui darò qui soltanto poche e brevi notizie.
Innanzitutto il papiro rivela una accurata e razionale organizzazione del testo all'interno del rotolo: l'ampio margine superiore, gli spazi piuttosto costanti sia tra le colonne sia tra le linee di scrittura, il sostanziale allineamento a sinistra e a destra dei margini delle colonne sono tutti elementi che, insieme con la scrittura chiara ed elegante, ben allineata sull'ideale rigo di base – come vedremo tra poco –, attestano sicuramente il buon livello generale del libro.
La larghezza di ogni colonna oscilla da un minimo di 4.7 cm ad un massimo di 5.8 cm, attestandosi generalmente sui 5–5.5 cm ca., una misura che rientra perfettamente nello "standard" ercolanese.[19] Come si è già detto, in linea di massima le parti superstiti delle colonne di P. non conservano più di 12–13 righe di scrittura, ognuna delle quali contiene dalle 15 alle 20 lettere, quantità considerata "standard" sia nel caso dei nostri rotoli sia in quello dei rotoli greco-egizi e generalmente determinata più dalla tipologia grafica utilizzata che dall'ampiezza stessa delle linee.[20]
Per quanto riguarda le parti non scritte del volumen, lo spazio intercolonnare oscilla da 0.8 a 1.4 cm, conformemente a quanto testimoniato dalla maggior parte di questi rotoli e in particolare da quelli filodemei.[21] Più costante in P. la misura del vuoto interlineare: essa si attesta infatti tra 1 e 2 mm.
Un dato interessante è costituito dalla notevole ampiezza del margine superiore, che va dai 2.8 ai 3.4 cm ca. Il margine inferiore, che secondo la prassi editoriale antica era in genere leggermente più alto di quello superiore perché più soggetto alla sfrangiatura e alla rottura rispetto all'altro[22] – dal momento che costituiva la base del volumen –, doveva misurare verosimilmente 3.5–4 cm ca.
Se si considera che il rapporto tra l'ampiezza dello spazio marginale e l'altezza del rotolo era solitamente di 1:4–1:5,[23] si può ipotizzare che l'altezza complessiva di P. dovesse aggirarsi intorno ai 26–33 cm ca., una misura superiore allo "standard" ercolanese (attestato normalmente tra i 19 e i 24 cm) ma coerente con le misure testimoniate dai materiali ossirinchiti, la cui altezza era generalmente compresa tra un minimo di 25 cm ed un massimo di 33 cm ca.[24] In base a questo dato si può dunque calcolare – sebbene con una certa approssimazione – la consistenza della porzione inferiore perduta del papiro: alla maggior parte dei pezzi di P., che hanno un'altezza media di 7.5 cm ca., mancherebbero grosso modo dai 18.5 ai 25.5 cm ca.
La ricostruzione della lunghezza complessiva del rotolo si può soltanto congetturare con estrema prudenza. Considerate le motivazioni estetiche che hanno certamente contribuito a produrre la mise en page regolare, ordinata e abbastanza ariosa di P., penso comunque di poter affermare che la scrittura dal modulo piuttosto piccolo, il numero piuttosto elevato di linee per colonna, gli spazi intercolonnari e quelli interlineari abbastanza stretti possano dimostrare con ogni probabilità la notevole estensione del testo del papiro, la cui lunghezza era probabilmente compresa – in base ai calcoli che ho effettuato e per i quali rimando alla mia edizione del testo – almeno tra i 10 e i 12 metri.
Tra i segni diacritici attestati nel papiro, un posto di rilievo spetta sicuramente alla paragraphos, che si trova sempre sul margine sinistro della colonna, al di sotto della linea all'interno della quale si vuole segnalare il passaggio ad una nuova frase o ad un nuovo concetto, e che in P. si presenta come un trattino, per lo più leggermente ondulato alle due estremità, dallo spessore variabile e dalla lunghezza oscillante dai 3 ai 5 mm ca.[25] In P. la funzione separativa che caratterizza la paragraphos, inoltre, è sempre sottolineata – per quanto ho potuto constatare – dalla presenza, all'interno della riga che la precede, di uno spatium vacuum dell'ampiezza di una o due lettere. Non infrequente anche la presenza, nella medesima posizione, di paragraphoi "rinforzate," che sembrano indicare uno stacco più forte di quello dato dalle semplici paragraphoi.[26] Una sola volta è attestata invece la diplè obelismene, che ha un effetto pausante piuttosto forte; essa segnala infatti la fine del capitolo dedicato al bios di Perseo e l'inizio di quello relativo al bios di Cleante.[27] Ciò che caratterizza maggiormente l'usus scribendi del copista di P. è però un segno di riempimento, costituito da due brevi linee orizzontali parallele e più o meno incurvate verso l'esterno, posto alla fine di numerose linee di scrittura.[28] Dal momento che nel papiro l'allineamento del margine sinistro delle colonne è costantemente rispettato (se si eccettua qualche raro caso in cui è possibile notare un lieve scivolamento a sinistra dell'attacco delle linee), è molto verosimile pensare che questo segno – che si presenta leggermente più ampio quando lo spazio da coprire è maggiore e meno ampio quando lo spazio è minore – sia stato apposto dallo scriba, pur se in maniera non costante e, anzi, piuttosto arbitraria,[29] al fine di uniformare anche l'allineamento a destra, fenomeno che generalmente contraddistingue i manufatti ercolanesi di più elevata qualità. Identico riempitivo è attestato, con la medesima funzione puramente estetica, nel P.Herc. 1507;[30] mi sembra molto interessante il fatto che la mano che ha vergato quest'ultimo rotolo e quella che ha trascritto P. risalgano molto probabilmente allo stesso periodo, vale a dire al tardo I sec. a.C.[31] Ciò confermerebbe che, come è stato recentemente evidenziato in uno studio sui segni di riempimento nei papiri ercolanesi,[32] lo stesso tipo di riempitivo si incontra generalmente in rotoli che presentano una certa omogeneità grafica e/o contenutistica o che risultano vergati da mani riconducibili ad un preciso arco temporale.
La scrittura del papiro è chiara e regolare e sembra vergata da una mano esperta e sicura. Si tratta di una maiuscola dal modulo piuttosto piccolo (0.3 x 0.2 cm ca.) e dal disegno morbido e fine; il tracciato è sottile ed uniforme. Le lettere, dal ductus fluido e posato, sembrano allineate con cura sul rigo di base, che in genere si presenta perfettamente orizzontale, e sono separate l'una dall'altra da intervalli così ristretti che spesso risultano attaccate tra di loro. Il rigoroso bilinearismo è accentuato dalla presenza di numerosissimi apici ornamentali, che talvolta deformano le lettere fino a renderne difficile l'individuazione. Sulla base dell'esame paleografico Cavallo fa risalire P., come si è accennato in precedenza, ad un periodo compreso tra la fine del I sec. a.C. e l'inizio del I sec. d.C.:[33] dal momento che verosimilmente Filodemo compose la Rassegna dei filosofi nel secondo venticinquennio del I sec. a.C.,[34] il papiro conterrebbe dunque una trascrizione piuttosto tarda del libro di quest'opera dedicato alla scuola stoica, e rientrerebbe nel gruppo delle ultime accessioni librarie che si innestarono sul fondo più antico della biblioteca ercolanese, quando il Gadarese era già scomparso.[35]
Un esempio di qualche piccola novità testuale emersa dalla nuova revisione dell'originale può essere offerto dalla col. V, una delle più lacunose di tutto il papiro.
Filodemo – nell'àmbito della trattazione del bios del primo scolarca stoico, Zenone di Cizio, che in P. occupa le coll. I–XII, 3 – nella colonna precedente a questa aveva criticato implicitamente alcuni esponenti dello Stoicismo antico e recente, che, per liberare definitivamente la propria scuola da ogni legame con il Cinismo, avevano deriso e cercato di atetizzare la giovanile Politeia di Zenone, composta, com'è noto, nell'orma dell'omonima opera del cinico Diogene di Sinope.
Le linee superstiti della col. V sembrano contenere uno scambio di battute tra due personaggi, uno dei quali probabilmente Zenone. La comprensione dell'aneddoto riferito da Filodemo in questa colonna è ostacolata soprattutto da una serie di piccole ma insidiose lacune, molte delle quali non hanno finora trovato un'integrazione convincente.
Particolarmente difficile risulta l'interpretazione delle ll. 1–4, che ci pongono dinanzi a due genitivi assoluti (λέγοντος e δυναμένου) di cui non si conosce il soggetto, e ad un accusativo frammentario ( ̣ ̣ ι̣σ̣ανην) per il quale non è stata ancora proposta un'integrazione plausibile.
Nella sua edizione il Comparetti[36] aveva cautamente ipotizzato che a l. 2 lo scriba avesse scritto per errore ΤΗΝΔΙΚΑΝΗΝ, ripetendo per distrazione le lettere ΑΝ che si trovano nella linea immediatamente precedente, e aveva dunque proposto la lettura τὴ[ν δίκ]{αν}ην. Secondo lo studioso, il soggetto dei due genitivi assoluti poteva essere un τοῦ ῥήτορος o un τοῦ συνηγόρου già nominato nella parte perduta della colonna precedente. La proposta del Comparetti, forse eccessivamente congetturale, contrasta però con le tracce visibili alla fine di l. 2 prima di ΑΝΗΝ: esse non sembrano infatti appartenere ad un κ, bensì, a quanto ho potuto osservare, ad uno ι e ad un σ legati tra loro, secondo una grafia frequentemente attestata nel papiro.
Il Bücheler[37] suggerì per primo di correggere a l. 1 ἦ δ᾿ ἄν τις in τί δ᾿ ἄν τις, e ipotizzò che a l. 2 si potesse integrare τὴ[ν λεκ]άνην, "bacinella," congettura in seguito accolta dal Gigante;[38] lo studioso, pensando evidentemente ad una contrapposizione tra il termine trisillabico e le tre lettere, diede la seguente interpretazione della frase iniziale: nihil existimaveris siquis trisyllabum dicet et ne elementa quidem tria callet, "a che vale, se qualcuno dice una parola trisillabica e non conosce neanche tre lettere?" Lo studioso riteneva, a mio parere correttamente, che l'espressione τρία φοινίκια indicasse le "tre lettere dell'alfabeto fenicio,"[39] e avanzò l'ipotesi che in questo passo Filodemo riferisse le parole sprezzanti di un avversario di Zenone, allora all'inizio del suo insegnamento. L'intera frase, secondo il Bücheler, richiamava inoltre un proverbio di probabile origine comica: τὴν λεκάνην λέγεις καὶ μηδὲ τρία νῦν δυνάμενος φοινίκια; "dici 'bacinella' e ora non sai neppure pronunciare tre lettere?"
Il Traversa[40] integrò a l. 2 τὴ[ν δα]π̣άνην e intese la frase come una battuta di Zenone sull'inutilità di spendere denaro (δαπάνην) per uno che non sa nemmeno leggere tre lettere di fila. Anche questa proposta, però, è ostacolata dalle ricordate tracce visibili prima di ΑΝΗΝ.
Tralasciando tutte le altre integrazioni proposte dai critici, per le quali rimando alla mia edizione, a me sembra che non si possa escludere, alla l. 2, la presenza del termine [πτ]ι̣σ̣άνην, "tisana," che, oltre ad essere perfettamente coerente con i resti di P., potrebbe forse essere giustificata dall'àmbito proverbiale che probabilmente connotava tutta la frase; si tratta però, data l'assoluta mancanza di dati relativi al contesto del passo, soltanto di una mera ipotesi, che sto approfondendo e che spero di argomentare quanto prima.[41] Le ll. 1–4 potrebbero comunque essere tradotte così: " ... avendo udito ciò disse: "Perché mai qualcuno dovrebbe dare ... se quando parla non è nemmeno in grado di pronunciare tre lettere?"
Nonostante le numerose incertezze dovute alla lacunosità del passo e alla indeterminatezza del contesto, a me sembra che in queste poche linee di P. si possano effettivamente rintracciare, come sostenuto dal Bücheler, le parole sprezzanti di un avversario di Zenone. Non è inverosimile pensare, infatti, che il discorso di Filodemo vertesse ancora sul giudizio negativo espresso da Panezio e da altri esponenti dello Stoicismo antico e recente sull'attività e sulla produzione giovanile del filosofo, con particolare riferimento alla sua scandalosa Politeia di stampo cinico. Come evidenziato dal Dorandi,[42] inoltre, è possibile che con l'espressione τρία φοινίκια (ll. 3 s.) il detrattore di Zenone alludesse, con intento denigratorio, proprio alle origini fenicie dello scolarca, testimoniate in contesti ironici o polemici sia da Diogene Laerzio (VII 3: [...] τὶ φεύγεις, φοινικίδιον; [...]) sia da Cicerone (De finibus IV 56: Postea tuus ille Poenulus [...] ). Le ultime linee superstiti della colonna conserverebbero quindi la parte iniziale della risposta all'apophthegma, pronunciata – a quanto sembra con una certa veemenza – da un personaggio non meglio identificato, forse lo stesso Zenone.
Abbastanza problematica anche la ricostruzione delle ll. 5–7 proposta dagli editori precedenti di P. Il Comparetti, sostanzialmente seguito sia dal Traversa che dal Dorandi, aveva infatti integrato il periodo nel modo seguente: τοῦτο δὲ [ἀδι]άφορον, φη|σίν, ἐστὶ κ[αὶ] π̣ληρὲς ἀσκε<ῖ>|[ον] ἀ[έρος, δῆλον] γὰρ ὅτι. La traduzione del passo suonerebbe dunque pressappoco così: "questo però è indifferente, dice, è un otricello pieno d'aria; infatti è chiaro che ... ". Il Dorandi avalla l'esegesi del Comparetti e legge τοῦτο δὲ [ἀδ]ιάφορον, φη|σίν, ἐστὶ κ[α]ὶ πλῆρες ἀσκί|[ον] ἀ[έρος] κ̣ ̣[ ̣ ̣ ] ̣ γὰρ ὅτι, traducendo l'espressione con un altrettanto inspiegabile "questo invero – dice – è indifferente e un sacchetto pieno d'aria ... ".[43]
Innanzitutto a l. 5 l'integrazione [ἀδι]άφορον, proposta per la prima volta dal Comparetti e accolta con convinzione dal Dorandi, che legge erroneamente anche lo ι e scrive [ἀδ]ιάφορον, è destinata a cadere: dopo la lacuna di due lettere in Ρ. è infatti possibile scorgere la traccia inconfondibile (seppur sbiadita) di un ρ ([ ̣ ̣]Ρ̣ΑΦΟΡΟΝ). Questa nuova lettura confermerebbe l'integrazione suggerita già dal von Arnim,[44] che – pur non avendo mai esaminato autopticamente l'originale – acutamente aveva corretto l'[ἀδι]άφορον del Comparetti in [παρ]άφορον, "folle, insensato," certamente più adatto al contesto del passo.
Il definitivo fraintendimento del testo ha comunque origine dal tentativo di integrare le lettere ΑΣΚΕ|[ leggibili a fine l. 6: il Comparetti ed il Traversa presupposero che lo scriba avesse omesso erroneamente lo ι (che escludono possa trovarsi nella linea successiva) e suggerirono di leggere ἀσκε<ῖ>|[ον], diminutivo di ἀσκός, "otre." Il Dorandi leggeva invece erroneamente ΑΣΚΕΙ[ e scriveva ἀσκί|[ον]. Se le ll. 6 s. fossero invece integrate così: ἐσ̣τὶ κα̣ὶ̣ πλῆρες ἀσκε|[ψίας],[45] il testo conservato nella parte finale di questa lacunosissima, oscura colonna potrebbe forse essere un po' più comprensibile: l'anonimo personaggio – con ogni probabilità Zenone –, rispondendo alle critiche mossegli dal suo detrattore, risponderebbe qui: "Ma questo è insensato e pieno di sconsideratezza ... ".
Notes
Sulla Rassegna si vedano almeno T. Dorandi, "Filodemo storico del pensiero antico," in W. Haase and H. Temporini (edd.), Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt (ANRW) II, 36.4 (Berlino-New York 1990) 2407–23 e G. Arrighetti, "Filodemo biografo dei filosofi e le forme dell'erudizione," CronErc 33 (2003) 13–30.
Sull'Index Academicorum si veda almeno l'edizione di T. Dorandi, Filodemo. Storia dei filosofi. Platone e l'Academia (P.Herc. 1021 e 164) (Napoli 1991).
D. Comparetti, "Papiro ercolanese inedito," RFIC 3 (1875) 449–555.
T. Dorandi, Filodemo, Storia dei filosofi. La Stoà da Zenone a Panezio (P.Herc. 1018) (Leida-New York-Colonia 1994).
M.C. Cavalieri, Filodemo, Rassegna degli Stoici (P.Herc. 1018, coll. I–XVI): da Zenone a Perseo, ed., trad. e comm., (Diss. Bari 2006) c.d.s. in SEP 7 (2010).
Numero d'inventario 108451/1006 della Biblioteca Nazionale di Napoli.
Per le notizie tecniche su P. cf. Catalogo dei Papiri Ercolanesi, sotto la direzione di M. Gigante (Napoli 1979) 228–230.
Sul procedimento utilizzato per svolgere il midollo del papiro, affidato dal Bassi ad Alfonso Cozzi, si era soffermato polemicamente A. Vogliano, "In tema di papiri ercolanesi," Prolegomena 2 (1953) 130.
In queste porzioni del papiro sono infatti visibili almeno tre strati diversi.
Questi frammenti, che nella mia edizione saranno riprodotti in calce al testo delle colonne, consentono solo in pochissimi casi il recupero di intere parole, a causa del pessimo stato di conservazione di questa parte dell'originale.
Si tratta infatti di una congerie di strati, più o meno accartocciati e variamente sovrapposti e sottoposti gli uni agli altri.
In base ai miei calcoli sarebbero andate perdute porzioni di papiro piuttosto consistenti soprattutto tra i pz X e XI e tra i pz XII e XIII.
Su questo e su tutti gli altri dati tecnico-bibliologici relativi a P. rimando alla mia edizione.
Cf. M. Capasso, Volumen. Aspetti della tipologia del rotolo librario antico (Napoli 1995) 55–71, sp. 65.
È il caso, ad es., della kollesis visibile nell'intercolumnio tra col. I e col. II, che presenta un andamento obliquo e irregolare.
In P. sono riuscita ad individuare con una certa sicurezza quattordici kolleseis e a distinguere probabili tracce di altre sette.
Cf. M. Capasso, Introduzione alla Papirologia. Dalla pianta di papiro all'informatica papirologica (Bologna 2005) 80.
Esso varia dai 5 ai 6 cm ca., anche se non mancano casi di colonne ampie solo 4 cm o addirittura 6–7 cm, cf. G. Cavallo, Libri scritture scribi a Ercolano. Primo Supplemento a Cronache Ercolanesi, 13 (Napoli 1983) 18 e M. Capasso, Manuale di Papirologia Ercolanese (Lecce 1991) 209. Sulle ipotesi da me avanzate circa la misura dell'altezza originaria delle colonne di P. e il numero di linee che ciascuna colonna doveva verosimilmente contenere rimando alla mia edizione.
Cf. Cavallo, op.cit. (sopra, n. 19) 18 e 48 s.; Capasso, op.cit. (sopra, n. 19) 209 e W.A. Johnson, Bookrolls and Scribes in Oxyrhynchus (Toronto 2004) 114–115.
Cavallo, op.cit. (sopra, n. 19) 19. Nei rotoli campani in qualche caso questa misura raggiunge i 16 e addirittura i 25 mm ca., avvicinandosi allo "standard" riscontrabile nei papiri greco-egizi fino al III sec. d.C., in cui il vacuo intercolonnare è generalmente compreso proprio tra i 15 e i 25 mm, cf. Capasso, op.cit. (sopra, n. 19) 209 s.; Johnson, op.cit. (sopra, n. 20) sp. 52, 109–113 e Capasso, op.cit. (sopra, n. 18) 96.
Generalmente il rapporto tra il margine superiore e quello inferiore è di 4/5 o 6/7; su questo cf. almeno Johnson, op.cit. (sopra, n. 20) 131–136 e Capasso, op.cit. (sopra, n. 18) 96.
Si vedano Cavallo, op.cit. (sopra, n. 19) 19 e Capasso, op.cit. (sopra, n. 19) 209.
Cf. almeno Cavallo, op.cit. (sopra, n. 19) sp. 47 s.; Capasso, op.cit. (sopra, n. 19) 205; Johnson, op.cit. (sopra, n. 20) 141–143; Capasso, op.cit. (sopra, n. 18) 92.
Mi è stato possibile scorgere delle paragraphoi nei seguenti punti di P.: col. III, ll. 3–4; col. X, ll. 4–5; col. XIII, ll. 11–12; col. XV, ll. 9–10; col. XXV, ll. 3–4; col. XXVI, ll. 8–9; col. XXIX, ll. 5–6; col. XXXVII, ll. 4–5; col. XXXIX, ll. 6–7.
Ho potuto notare la presenza di questo segno, anch'esso sempre accompagnato da un intervallo all'interno della riga precedente, a col. XII, ll. 3–4; col. XXXIII, ll. 4–5; col. LXXIX, ll. 4–5.
Col. XVII, ll. 1–2. Nel caso di questo segno, le cattive condizioni del papiro in quel punto non consentono di verificare la presenza di un eventuale spatium vacuum all'interno della linea precedente.
Col. I, l. 8; col. II, l. 3; col. III, l. 6; col. VI, l. 4; col. VII, l. 2; col. IX, l. 2; col. X, ll. 4 e 11; col. XII, ll. 7 e 10; col. XIV, ll. 4 e 6; col. XXII, ll. 1 e 10; col. XXVII, l. 4; col. XXXII, l. 4; col. XXXVIII, l. 4; col. XLI, ll. 6 e 9; col. XLVI, l. 4; col. LI, l. 2; col. LVI, l. 2; col. LX, ll. 2 e 4; col. LXI, l. 4; col. LXV, l. 6; col. LXVII, ll. 3 e 5; col. LXVIII, l. 3; col. LXIX, l. 2; col. LXXII, l. 5; col. LXXIII, ll. 1 e 6; col. LXXIV, ll. 1 e 3; col. LXXVI, l. 2; col. LXXIX, l. 5; fr. 9 Cavalieri, l. 3.
Questa mancanza di regolarità non dev'essere imputata a scarsa cura dello scriba: nella prassi antica, infatti, l'uso dei riempitivi generalmente non era sistematico; in uno stesso papiro si possono dunque facilmente trovare linee di scrittura accuratamente rifinite accanto ad altre non perfettamente allineate, cf. R. Barbis Lupi, "Uso e forma dei segni di riempimento nei papiri letterari greci," in Proceedings of the XIX International Congress of Papyrology (Il Cairo 1992) I, sp. 503.
Cf. T. Dorandi, Filodemo, Il buon re secondo Omero (Napoli 1982) e J. Fish, "Philodemus' On the Good King according to Homer: Columns 21–31," CronErc 32 (2002) 187–232.
Sulla datazione di P. cf. più avanti; su quella del P.Herc. 1507 si vedano Dorandi, op.cit. (sopra, n. 30) 53; Cavallo, op.cit. (sopra, n. 19) 55 s. e Capasso, op.cit. (sopra, n. 19) 174.
T. Di Matteo, "Segni di riempimento nei papiri ercolanesi," in J. Frösén, T. Purola, e E. Salmenkivi (edd.), Proceedings of the 24th International Congress of Papyrology. Commentationes Humanarum Litterarum, 122 (Helsinki 2007) I 259–265.
Cavallo, op.cit. (sopra, n. 19) sp. 53. Lo studioso (ibid., 37 s.) inserisce la tipologia grafica di P. all'interno del gruppo L, di cui fanno parte scritture caratterizzate da un forte bilinearismo e dalla presenza di marcati apici ornamentali alle estremità dei tratti delle lettere. La datazione proposta da Cavallo per P. sembra confermata dal confronto con la tipologia grafica testimoniata da alcuni papiri greco-egizi vergati all'inizio del I sec. d.C.; su tutto questo rimando alla mia edizione.
Cf. ibid., sp. 65 e Capasso, op.cit. (sopra, n. 19) sp. 196 s.
Questa la sua ricostruzione delle ll. 1–4 (p. 478): τοῦτ᾿ ἀκούσας· Ἦ δ᾿ ἄν τις, | ἔφη, δώη τη ̣ ̣ ̣ ̣ανην | λέγοντος κ[αὶ μ]ηδὲ τρί|α φοινίκ̣[ια δ]υναμένου;
F. Bücheler, "Ad Papyrum Herculanensem 1018," apud Comparetti, op.cit. (sopra, n. 3) 550 = Id., Kleine Schriften (Lipsia-Berlino 1927) II, 143.
M. Gigante, rec. a Dorandi, op.cit. (sopra, n. 2) Gnomon 72.4 (2000) 296.
Diversa l'interpretazione del Gigante, ibid., che traduceva l'espressione [μ]ηδὲ τρί|α φοινίκι̣[α δ]ναμένου con "e non vale neppure tre datteri."
Questa la sua ricostruzione delle ll. 1–4 (pp. 10 s.): τοῦτ᾿ ἀκούσας· Ἦ δ᾿ ἄν τις, | ἔφη, δώη τὴ[ν δα]π̣άνην | λέγοντος κ[αὶ μ]ηδὲ τρί|α φοινίκ̣[ια δ]υναμένου;
Ringrazio il prof. M. Capasso per avermi suggerito questa integrazione.
H. von Arnim, "Bemerkungen zum Index Stoicorum Herculanensis," SAWW 143 (1901) 5.
Anche in questo caso il von Arnim, ibid., aveva già suggerito il supplemento ἀσκε|[ψίας], sicuramente più aderente sia alle tracce di P. sia al contesto.