L'Aminta, di Torquato Tasso, favola boscherecchia. Tasso's Aminta, a pastoral comedy, in Italian and English.

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Title
L'Aminta, di Torquato Tasso, favola boscherecchia. Tasso's Aminta, a pastoral comedy, in Italian and English.
Author
Tasso, Torquato, 1544-1595.
Publication
Oxford :: printed by L. Lichfield, for James Fletcher; and sold by J. Nourse bookseller, near Temple-Bar. London,
[1650?]
Rights/Permissions

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"L'Aminta, di Torquato Tasso, favola boscherecchia. Tasso's Aminta, a pastoral comedy, in Italian and English." In the digital collection Early English Books Online 2. https://name.umdl.umich.edu/A62822.0001.001. University of Michigan Library Digital Collections. Accessed June 6, 2024.

Pages

ATTO QUINTO. SCENA PRIMA.
Elpino. Choro.
VEramente la legge, con che Amore Il suo imperio governa eterna∣mente, Non è dura, nè obliqua, e l'opre sue Piene di povidenza, e di mistero Altri à torto condanna. O con quant' arte, E per che ignote strade egli conduce L' huomo ad esser beato, e fra le gioie Del suo omoroso Paradiso il pone, Quand' ei più crede al fondo esser de' mali. Ecco precipitando, Aminta ascende Al colmo, al sommo d' ogni contentezza. O fortunato Aminta, ò te felice Tanto più, quanto misero tu fosti. Hor co 'l tuo esempio à me lice sperare, Quando che sia, che quella bella, & empia, Che sotto il riso di pietà ricopre,

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Il mortal ferro di sua feritate, Sani le piaghe mie con pietà vera, Che con finta pietate al cor mi fece.
Cho.
Quel, che quì viene, è il saggio Elpino, e parla Corì d' Aminta, come vivo ei fosse, Chiamandolo felice, e fortunato. Dura conditione de gli Amanti! Forse egli stima fortunato Amante Chi muore, e morto al fin pietà ritrova Nel cor de la sua Ninfa; e questo chiama Paradiso d' Amore, e questo spera. Di che lieve mercè l' alato Dio I suoi servi contenta! Elpin, tu dunque In sì misero stato sei, che chiami Fortunata la morte miserabile De l' infelice Aminta? un simil fine Sortir vorresti?
Elp.
Amici, state allegri; Che falso è quel rumor, ch' à voi pervenne De la sua morte.
Cho.
O che ci narri, e quanto Ci racconsoli: e non è dunque il vero, Che si precipitasse?
Elp.
Anzi è pur •…•…ro, Ma fù felice il precipitio; e sotto Una dolente imagine di morte Gli recò vita, e gioia; egli hor si giace Nel seno accolto de l'amata Ninfa, Quanto spietata già, tanto hor pietosa: E le rasciuga da' begli occhi il pianto Con la sua bocca. Io à trovar ne vado Montano di lei padre, & à candurlo Colà avo' essi stanno: e solo il suo

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Volere è quel, che manca, e che prolunga Il concorde voler d' ambidue loro.
Cho.
Pari è l' età, la gentilezza è pari, E concorde il desio: e 'l buon Montano Vago è d' haver nipoti, e di munire Di sì dolce presidio la vecchiaia; Sì che farà del lor volere il suo. Ma tu, deh Elpin, narra, qual Dio, qual sorte Nel periglioso precipitio Aminta Habbia salvato.
Elp.
Io son contento: udite, Udite quel, che con quest' occhi hò visto: Io era anzi il mio speco, che si giace Presso la valle, e quasi à piè del colle, Dove la costa face di se grembo: Quivi con Tirsi ragionando andava Pur di colei, che ne l' istessa rete Lui prima, e me dapoi ravuolse, e strinse; E preponendo à la sua fuga, al suo Libero stato, il mio dolce servigio; Quando ci trasse gli occhi ad alto un grido, E'l vederlo cader sovra una macchia, Fà tutto un punto: sporgea fuor del colle Poco di sopra à noi d' herbe, e di spini, Ed altri rami strettamente giunti, E quasi in un tessuti, un fascio grande. Quivi, prima, che urtasse in altro luogo, A cader venne: e, bench' egli col peso Lo sfondasse, e più giuso indi cadesse, Quasi su' nostri piedi, quel ritegno Tanto d' impeto tolse à la caduta, Ch' ella non fù mortal: fù nondimeno

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Grave sì, ch' ei giacque un' hora, e più, Stordito affatto, e di se stesso fuori. Noi muti di pietate, e di stupore, Restammo â lo spettacolo improviso, Riconoscendo lui: mà, conoscendo, Ch' egli morto non era, e che non era Per morir forse, mitighiam l' affanno. Allhor Tir si mi diè notitia intiera De' suoi secreti, & angosciosi amori. Ma mentre procuriam di ravvivarlo Con diver si argomenti, havendo in tanto Già mandato à chiamar Alfesibeo, A cui Febo insegnò la Medica arte, Allhor, che diede à me la Cetra, e'l Plettro, Sopragiunsero insieme Dafne, e Silvia: Che (come intesi poi) givan cercando Quel corpo, che credean di vita privo. Mà, come Silvia il riconobbe, e vide Le belle guancie tenere d' Aminta Iscolorite in sì leggiadri modi, Che viola non è che impallidisca Sì dolcemente, e lui languir sì fatto, Che parea gia ne gli ultimi sospiri Esalar l' aima, in guisa di Baccante Gridando, e percotendosi il bel petto, Lasciò cadersi in su 'l giacente corpo, E giunse viso à viso, e bocca à bocca.
Cho.
Hor non ritenne adunque la vergogna Lei, ch' è tanto severa, e schiva tanto?
Elp.
La vergogna ritien debile amore; Ma debil freno è di potente Amore: Poi, sì come ne gli occhi havesse un fonte, Inaffiar cominciò col pianto suo

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Il colui freddo viso: e fù quell' acqua Di cotanta virtu, ch' egli rivenne; E gli occhi aprendo, un doloroso Ohimè Spinse dal petto interno: Ma quell' Ohimè, ch' amaro Così dal cor partissi, S' incontrò ne lo spirto De la sua cara Silvia, e fù raccolto Da la soave bocca, e tutto quivi Subito raddolcissi. Hor, chi potrebbe dir, come in quel punto Rimanessero entrambi? fatto certo Ciascun de l' altrui vita, e fatta certo Aminta de l' Amor de la sua Ninfa? E vistosi con lei congiunto, e stretto? Chi è servo d' Amor, per se lo stimi; Ma non si può stimar, non che ridire.
Cho.
Aminta è sano sì, ch' egli fia fuori Del rischio de la vita?
Elp.
Aminta è sano, Se non ch' alquanto pur graffiat' hà 'l viso, Ed alquanto dirotta la persona, Ma sarà nulla, & ei per nulla il tiene. Felice lùi, che sì gran segno hà dato D' Amore, e de l' amor il dolce hor gusta A cui gli affanni scorsi, & i perigli Fanno soave, e dolce condimento. Mà restate con Dio, ch' io vo' seguire Il mio viaggio à ritrouar Montano.
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